pati sine lamentatione

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carpe died
view post Posted on 11/1/2011, 18:38




Questo forum è come voi e me. Come me perchè è in bilico tra lo slancio e la vertigine - oppure è semplicemente un piattume uniforme; come voi in quanto è forzato da se stesso; già. Quindi posterò questo intervento, malgrado strati dell'indifferenza possano far ribollire il “il grido di amore si perdeva inascoltato” (è una massima di Misasi, ma mi si addice solo a metà) e sviste pertinenti [o ahia, inibizione].

Le grazie e le disperazioni ermetiche sono slanci parafrasati nel decorso di una tipologia attiva, un'irreparabilità che fluisce dinamica quanto mai compatta nella gola di un cannibale. Come attimi di pura stasi, s'identificano con le sregolatezze del regresso caotico della personalità compiuta. Dall'olimpo delle affinità, dalle elevature dei lussi incombenti, esse si spezzano come chiodi bruni nell'ingranaggio d'un'estasi dalla continuità. Permettono privilegi mediocri, scappatoie inconfessabili, vizi impraticabili, spontaneità che includono tutto tranne che la bramosia della pianificazione. Le grazie, più precisamente, sono figliole in adozione: esse vengono sempre tremendamente partorite da idoneità oggettive sulla soggettività vergine, sono un seme del vissuto caotico. Sono meri influssi del caos, giochi con cui dilettarsi con la coscienza. Le grazie sono sempre in scissione con la coscienza. Sono un peccato che non ci spetta, se non come svago dissimulatore. Le disperazioni sono contrariamente vite dei nostri selciati. Irreparabilità con le quali relazionarsi con l'esterno, bufere personali che agglomerano col mondo. La massa amorfa delle persone scade così; ogni disperazione è una confutazione, ogni dolore è un incarico, eppure è di quanto più intimo sussista. I beni sono necessità che avvengono per fattori costrutti, sempre estranei principalmente alla nostra essenza invariata, i dolori sono cinte che conservano tali positività, tutto ciò che di particolare si va affrontando, di conseguenza provengono dalla nostra interiorità più ascetica. Constatabile è infatti che ogni dolore è null'altro che una risposta, un nucleo che si serba da sempre sulle pareti del nostro cuore e sulle essenze della nostra mente. Ciò che le relaziona è proprio questo: l'emotività si configura con il razocinio, e da questa unione ne scaturisce una vertigine che mira a pretendere sempre qualcosa di dissimile, ovvero qualche ente che provenga da un altrui essere o fenomeno (che normalmente non mancherà di allacciarsi con la nostra persona), maturato in quell'istante in struttura esistenziale differente dalla nostra, per tempestività di processi. Questa entità benigna la si può nominare come affezione dalla beatitudine. Essa è la forma più elevata del bene, ovvero quando ogni bene ha raggiunto una stabilità armonica con gli altri in un processo di maturazione dell'essere preso in soggetto. Il suo contrario è la disperazione. Esso è l'elemento che più si appaga del bene, della beatitudine, è il cane da guardia di questa che, senza padrone, è destinato a cadere in una rete di collera e di incapacità. La vera disperazione è la mancanza ad ogni bene proporzionale a questi, in relazione sempre indivisibile, un quoto solidale, egoista nella forma più disparata. Ma la vertigine più dolorosa di cui è elevatamente vittima l'uomo non è la disperazione; o almeno non quella generalmente intesa. È piuttosto la disperazione oggettiva. Non quella che si avverte per il mondo, ma quella che si manifesta una sola volta, quando si decide di commettere l'irreparabile, quando le maglie dell'esistenza vengono al crollo, quando ogni elemento è sacrificale e richiede il massimo sacrificio. Nella disperazione vera non si ha più la forza di urlare, ma solo di contemplare questa, per un'ultima volta. Allora non si è più in un deserto muto, allora si è in bilico tra la scelta mancata e l'oblio. La sicurezza che c'è in questa disperazione è della fine; non si può proprorre allora che tale disperazione è in realtà una autoforma di soddisfazione più totale? - perchè, quanto è più alta la disfatta, tanto è più alto il rimedio che vi si può scovare. Ma questa che sto assiduamente professando non è capacitata; è nell'incoscienza d'un pulviscolo cadaverico, un torrente vermiglio, ricco di vitalità più che mai: è la vitalità più distorta in natura, in quanto è la vitalità che nega la stessa, ma non già come morte, ma come respiro stizzoso che in questa intravede scviolando solo la sua negazione. Irresponsabilità tenace, l'unico sguardo che si può prestare al finire del mondo. Non è un lamento, è una constatazione di paralisi, è l'ultimo lamento dell'anima, l'estremità di svolta, la polarità della sensazione che trascende ormai la ragione, anche se era sgorgata da questa, come una comune disperazione. Ecco dunque che essa nobilita l'animo: è la più raffinata incoscienza della coscienza, la quale vira ad un'essenzialità assoluta quanto ironica, nella sua ambiguità completa, che riduce tutto partendo da una singola mediocrità, quale è al disperazione, giungendo ad una sopraffazione di questa con il suo più profondo significato. Non è più nulla, non è più tutto, è solo ciò che rimane come valore all'irrazionalità dell'esistere. La materia della vita è contradditoria alla vita stessa. Follia, ambiguità, redenzione, la Disperazione. Senza significato, ma con massima rappresaglia, la vendetta più diletta alla vita.
 
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